Parole del giorno: Ci vuole un segno, un dettaglio, per capire certe cose della vita.

Quella melodia mi stava accompagnando da giorni. Quei violini e quel pianoforte erano sempre con me. Leggevo e la sentivo. Camminavo per strada e la sentivo. In tram, la sentivo. Nei negozi, la sentivo. C’era un ragazzo che suonava la chitarra in piazza: cantava, e davanti a sé aveva messo la custodia dello strumento per avere qualche spicciolo. E mi sembrava che anche lui stesse suonando quella melodia. Era nella mia testa da giorni. Sapevo che fosse un segnale. Niente è a caso, tutto ha un senso. Quella musica che si stava pian piano facendo spazio dentro di me voleva comunicarmi qualcosa. La sua presenza, così costante, stava diventando un nuovo amico che tentava di darmi un consiglio, di aprirmi gli occhi in modo sincero ed onesto. Alle volte ci vuole proprio un segno, un dettaglio, per capire certe cose della vita. Spesso sono così grigie, sfumate, ed è così difficile riuscire a vederle in maniera limpida e sapere ciò che esattamente si vuole. Oppure, non si vuole dare ascolto a ciò che il proprio cuore sente, e si va avanti pensando che ciò che dice la testa è la cosa giusta. Ma prima o poi il cuore si rifà sentire, e ti fa capire in tutti i modi qual è la strada giusta da prendere. Che tu lo voglia o no, il cuore ha sempre la meglio sulle nostre decisioni razionali. Bisogna fare attenzione alle piccole cose, ai dettagli, ai segnali che la vita ci suggerisce, e tradurli, comprenderli grazie al nostro cuore. E’ lì che si trova la risposta a tutte le nostre domande, ai nostri dubbi e alle nostre incertezze. Bisogna avere cura del proprio cuore, è lui che ci guida. Chiudere gli occhi, dimenticarsi di tutto, respirare piano e ascoltare il battito del cuore. Tu-tun, tu-tun, tu-tun, tu-tun. E’ come il codice Morse, solo che solo noi stessi possiamo capirne il significato.

Sapevo dunque che quella melodia fosse un segnale, mi stava dicendo qualcosa. E così, mi misi in ascolto, rilassata. Chiusi gli occhi, e mi ritrovai sdraiata in una spiaggia dalla sabbia dorata, con le coste alte e ricche di arbusti verdi. Non c’era nessun altro. Potevo godermi la morbidezza dei granelli di sabbia che facevo scorrere fra le mie dita ed il suono del mare che mi accompagnava. La temperatura era ideale, non faceva troppo caldo, e riuscivo così a concentrarmi sul battito del mio cuore. Tu-tun, tu-tun, tu-tun, tu-tun. Sorrisi.

Un anno di parole del giorno.

Con estremo ritardo, mi cimento nel creare questo post.

E’ passato un po’ più di un anno da quando ho cominciato a scrivere Il Linguaggio dei Fiori, e, come capita ad ogni compleanno e ad ogni Capodanno, è doveroso considerare i cambiamenti che ci sono stati e ciò che invece è rimasto uguale durante questi ultimi 365 giorni.

So che sarà un post tremendamente noioso, perciò, non voglio tediarvi inutilmente: se non avete voglia di proseguire, vi lascerò tranquillamente ritornare alle vostre attività. Per quanto riguarda, al contrario, i più volenterosi e/o curiosi, ecco a voi le mie considerazioni di quest’ultimo anno in compagnia di questo angolo digitale che mi sono ritagliata.

Innanzitutto, la scrittura è sempre stata per me qualcosa che reputo essenziale nella mia vita. Ho sempre amato scrivere storielle, racconti, ma soprattutto imprimere su carta i miei pensieri, i miei dubbi e le mie esperienze, anche perché sono dotata di una memoria a breve termine estremamente delicata, e rileggere i diari mi aiuta a ricordare molte cose che avevo completamente rimosso. Inoltre, utilizzo la scrittura come medicina e come meditazione: mi piace scrivere come mi sento, cercare di dare un nome alle emozioni che provo, e trovo anche utile mettere su carta i miei dubbi, perché man mano che li scrivo mi rendo conto che riesco ad arrivare alla soluzione. E’ come se riflettessi in maniera estremamente concentrata, con la mente libera da qualsiasi altro elemento distraente, riuscendo ad arrivare nella parte più profonda di me, ascoltandomi e consigliandomi, in cui trovo una vocina che mi chiede aiuto, per poi alla fine abbracciarmi una volta arrivata alla conclusione. Ciò che amo della scrittura è proprio il suo lato terapeutico, mi fa capire tante cose di me e degli altri, e trovo sia meraviglioso provare ad usare tutte le parole della nostra lingua per descrivere questo complicato, caotico mondo carico di emozioni. L’italiano non è una lingua che abbia il dono della sintesi, e non credo che esista una parola unica che descriva in sé una situazione o un momento particolare. Certo, io non me ne intendo affatto di linguistica o cose del genere, sto solo considerando le mie conoscenze. L’italiano non è come lo Yaghan, la lingua degli Yamana, una popolazione autoctona della Terra del Fuoco. La loro lingua contiene uno dei vocaboli che è noto per essere una delle parole più concise e di difficile traduzione al mondo, ed è stato inserito anche nel Guinnes dei Primati. Il termine in questione è Mamihlapinatapai, e sta ad indicare l’atto di “guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l’altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo”. Non è meraviglioso che un’unica parola riesca a descrivere una situazione così complessa? Comunque, sto divagando.

Dov’ero… Quello che voglio dire, insomma, è che in quest’ultimo anno non è che sia successo chissà cosa, tuttavia mi sento estremamente cambiata, cresciuta, più in contatto con me stessa, mi ascolto di più e sono più attenta alle mie esigenze, alle mie paure ma anche a ciò che invece può rendermi felice. Sto intraprendendo un percorso di crescita che so bene forse non terminerà mai, ma sarà, almeno un pochino, facilitato dalla consapevolezza di prestarmi attenzione. Ed in questo la scrittura ha avuto un ruolo fondamentale: è grazie a lei infatti che ho capito molte cose. E’ stato un anno meraviglioso, ho imparato molto dalle persone che ho accanto e da quelle che ho incontrato, dalle esperienze vissute e dalle letture che ho amato.

Detto questo, sperando di non avervi annoiati troppo, vi lascio col finale di “Va dove ti porta il cuore”, di Susanna Tamaro, che considero una delle citazioni migliori e più utili che esistano.

E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va dove lui ti porta.

Parole del giorno: In una sala da ballo, molti anni prima.

C’è un preciso momento della sera in cui mi piace uscire di casa, soprattutto in questo periodo, per godere del fresco che mi arriva sul viso e coccolarmi con la sciarpa di lana. Ebbene, è in quel momento che mi ritrovo a fischiettare mentre da sola passeggio per le vie della città in cui pochi mi conoscono e nessuno mi incontra mai. Alle volte mi rendo conto alcuni minuti dopo che sto fischiettando: evidentemente è diventato parte di me.

Cammino, guardo in su, sorrido, faccio pensieri felici e intanto volo con la fantasia, il tutto riempiendo le guance di aria, per poi farla uscire sotto forma di musica. E mentre accade tutto questo, noto che ogni tanto, qualcuno, (di solito delle persone anziane seduti nei tavoli fuori dal bar), mi segue con lo sguardo, e mi pare di vedere sul suo volto disegnarsi un tenero solco, un sorriso. Così, per un po’, faccio finta di essere fra i suoi pensieri, ed immagino ciò che pensa. Mi piacerebbe se fossi capace, con la mia musica fischiettata, di riportarlo in là nel passato, ad un momento felice che pensava di avere dimenticato e che, invece, col semplice movimento delle mie guance, eccolo di nuovo lì, vivido e reale. Tempi che sembravano perduti ritornano, e sono di nuovo il presente, emozionano più di prima e rendono i sentimenti ancora più sinceri. Mi immagino quell’uomo anziano che è seduto al bar, con la giacca in pelle, la camicia grigia sgualcita ed i pantaloni un po’ rovinati, quello che ha appena poggiato il giornale sulla sedia accanto a lui per vedere da dove provenisse quella musica fischiettata. Gira il viso verso di me, mi segue con gli occhi, ed io continuo a fare musica. Lui sorride, chiude gli occhi. Lo vedo moltissimi anni prima, in una sala da ballo, elegante, col parquet lucido, specchi e quadri alle pareti, coppie che ai tavoli fumano sigarette e chiacchierano, ridono, bevono vino. E’ la fine della serata, forse è l’ultima canzone che la piccola orchestra ha concesso ai clienti della sala da ballo. E lo vedo lì, sulla pista da ballo, abbracciato ad una bella donna, poco più giovane di lui. La avvolge fra le sue braccia, proteggendola da qualsiasi cosa sia più grande di lei. Ballano, entrambi sorridono tenendo chiusi gli occhi. Si godono quei dolci minuti, quella tenera musica. Sembrano un’unica cosa, sembra che siano completi solo rimanendo così, abbracciati. E allora li guardo anche io, cado in questa dolce immagine che mi abbraccia. Continuo a fischiettare…così magari riesco a rendere qualcun’altro felice, facendo ricordare momenti che sembravano perduti.

Fischiettando…La Vie En Rose.

Parola del giorno: Attese.

L’altro giorno ero alla fermata dell’autobus in attesa che passasse quel benedetto numero 15 per portarmi in facoltà. Nel frattempo osservavo il cielo, timidamente chiaro dalla luce della mattina, ma coperto di nuvole: sembrava un quadro. Si distinguevano le pennellate, lì più chiare, bianche ed azzurrine, più in là un po’ più scure, grigie e blu. Era un cielo che non avevo mai visto prima. Chissà, magari mi trovavo realmente all’interno di una tela, e da qualche parte c’era un pittore che stava dipingendo quel cielo, la piazza col mercato e, forse, anche me.

Questa era la cornice dei miei pensieri. Mentre aspettavo mi guardavo attorno. Un giovane ragazzo faceva jogging lungo la piazza, le auto sfrecciavano inglobate dal caos mattutino, un cane correva nel prato ed il padrone, affaticato, camminava lentamente a metri di distanza da lui. L’orologio sembrava non muoversi, e l’autobus pareva non avesse voglia di sbucare dal fondo della strada. Così, seduta sulla gelida panchina della fermata, mi sono concentrata sui miei pensieri. E sapete cos’ho pensato? Ho pensato a quanto tempo della nostra vita è destinato alle attese. Secondo me almeno metà della vita di ognuno è costituita da attese, attese di ogni tipo. Momenti in cui non puoi fare altro che aspettare, e magari domandarti cosa accadrà dopo.

Metà di una vita. Se ci pensate è davvero tantissimo, un’infinità. Un’eternità di tempo.  Sono momenti in cui non sai cosa fare. C’è chi si accende una sigaretta, chi ascolta musica, chi chiude gli occhi e riflette sui ricordi, chi pensa a cosa accadrà di lì a poco, chi pensa alla stupenda serata della sera prima, e chi, come me, legge e si guarda intorno.

Aspettare. Aspettare qualcosa che può essere indefinito. E’ come stare fermi sott’acqua, con solo la possibilità di aprire gli occhi. Si vede tutto, un po’ sfuocato e tremolante, ma non puoi fare nulla. L’unica cosa che ti è permesso è stare fermo ed attendere. Oppure come quando hai davanti una persona, la guardi negli occhi e capisci che ha qualcosa di importante da dirti, ma per qualche motivo temporeggia, non riesce a muovere le labbra sincronizzandole coi suoi pensieri. O come quando sei in sala d’attesa, di una stazione ferroviaria, un ospedale, un ufficio per un colloquio. Nella tua testa sfrecciano milioni di pensieri, come in una grossa autostrada a quattro corsie. Ogni pensiero si sfiora l’uno con l’altro, senza mai toccarsi. Tutto va veloce e in quei momenti l’attesa fa spazio all’agitazione, che manda ancora più in tilt quei pensieri…

E così, seduta su quella gelida panchina, ho capito una cosa. Ho capito che l’attesa riempie i momenti vuoti della vita attraverso le emozioni che ci procura. Sta a noi gestirle. Io cerco di pensare a cose belle, a cose felici, a ricordi emozionanti. Forse anche adesso sono in attesa di emozionarmi, di andare oltre, di superare tutto questo, vedere cosa viene dopo. Ma intanto sono ferma sott’acqua, e allora con cautela guardo e osservo, sapendo che quando ne uscirò avrò una sorpresa piacevole ad accogliermi.

Parole del giorno: La mia vita su carta.

Stavo facendo un po’ di ordine in camera mia, svuotando i cassetti, buttando cose inutili che un tempo invece avevo evidentemente reputato come funzionali, spostando di qua e di là oggetti, ritrovando cose perdute. E così, mi sono imbattuta in alcuni diari, scritti circa tra il 2007 ed il 2010.

Innanzitutto, vi devo dire che fin da bambina ho sempre tenuto un diario. Ho avuto dei periodi non produttivi, dove non reputavo importante scrivere, in cui non avevo la testa per questa attività e mi perdevo a rincorrere cose futili. Tuttavia, penso di aver comunque sempre tenuto un diario fin da quando ho imparato a scrivere.

Mi devo dividere fra due città: una è quella in cui sono cresciuta, l’altra invece, è quella che mi sta facendo crescere, dove da circa quattro anni vivo per frequentare l’università. Ebbene, credevo di avere lasciato la maggior parte dei diari nella mia città d’origine, invece ne ho ritrovati alcuni nella città in cui studio. E che sorpresa!

La cosa divertente è vedere come si è evoluta la mia capacità creativa e lo stile di scrittura. I primi diari erano caratterizzati dalle parole “Caro diario” all’inizio di ogni pagina, in cui scrivevo ciò che avevo fatto a scuola, a che giochi avevo giocato, com’era andata la lezione di nuoto, tennis, violoncello, e alle prime cotte infantili. Disegnavo spesso, anche figure non propriamente sensate, abbellivo le parole che reputavo più importanti con penne dall’inchiostro glitterato e profumato, attaccavo adesivi qui e lì e disegnavo cuoricini rossi e blu di dimensioni differenti. Crescendo poi, il diario ha cominciato a perdere colore, e a riempirsi di dubbi, paranoie, parole che tentavano di dare un senso ai cambiamenti in atto. Successivamente è arrivato il primo amore, e con esso i cuori sono risbucati. La felicità era tangibile attraverso quelle pagine. Scrivevo di noi, di ciò che provavo e di quanto fosse divertente. Dopo è arrivato il momento in cui entrambi abbiamo detto “Fine“, e così le parole sono cominciate ad essere più tristi e ogni tanto qualcuna di loro ha ricevuto una lacrima, così alcuni fogli si sono un po’ rovinati.

Ma tutto passa. Il tempo procede lento ed inesorabile, ma ogni cosa ci fa crescere ed ogni cosa ci fa capire chi vogliamo essere. Così i diari continuavano ad essere scritti, con frasi un po’ più serene, sempre mettendo in dubbio alcune cose che mi capitavano, finché non sono diventati un luogo in cui sfogare tutti i miei pensieri, i problemi che mi attanagliano, per fare in modo di trovare una soluzione ad essi attraverso la scrittura. Adesso sono parole più mature, ancora un po’ spaventate dal futuro, ma sono anche consapevoli del passato e soprattutto degli insegnamenti che esso mi ha donato. Ogni esperienza, rileggendola, mi ha emozionata, con la pelle d’oca e, altre volte, con un po’ di lacrime. Il sorriso mi ha accompagnata nella rilettura di quelle pagine, ma rileggere la mia tristezza è stato come avere un coltello in pancia. Una forte e dolorosa fitta, che mi ha catapultata nel momento i cui ho riempito di inchiostro quelle pagine.

E adesso, mentre sto scrivendo il diario del presente, ripenso a tutta la mia vita sulla carta, sapendo che ho la possibilità di sorridere di nuovo, che me lo merito. Sono consapevole che ci saranno altrettanti momenti tristi ed altrettanti momenti difficili, ma le pagine che ho scritto mi hanno insegnato che posso superare tutto. Magari ci vorrà del tempo, e anche parecchi diari. Ma alla fine l’unica cosa che conta è che so bene che riuscirò a vivere la mia vita come voglio viverla, serenamente e pronta ad abbracciare qualsiasi nuova esperienza. Questi sono gli insegnamenti che mi hanno fornito i miei diari, le mie pagine, la mia vita su carta.

Parole del giorno: Cominciare a leggere un libro è come cominciare a conoscere una persona.

Cominciare a leggere un libro è come cominciare a conoscere una persona. La vedi da lontano, magari le stringi la mano perché venite presentati da amici in comune. Magari te ne avevano anche già parlato. Poi ti ritrovi ad osservarla, a giudicarla dalla copertina, anche se tutti sanno che non si dovrebbe fare, ma, d’altronde, è un atto spontaneo. In qualche modo ti rendi conto che quegli occhi che ogni tanto incrociano il tuo sguardo ti piacciono, anche se alle volte riuscire a reggerlo è difficile perché ti imbarazza. Così decidi di tentare, provare ad aprire leggermente quel libro e iniziare a scrutare le parole inserite all’interno di esso. Vi trovi una sovracopertina un po’ rigida, e succede ogni tanto di ritrovare delle parole dolorose, tristi, che si rifanno ad esperienze che hanno indebolito il cuore di quella persona. Tutto ciò ti intenerisce, vuoi scoprire altro di quel libro, perché quelle parole così vere, così reali, così tristi ti hanno toccato profondamente il cuore. Esci con quella persona la prima volta e noti come sia facile parlare con lei, ti sembra che quel libro sia familiare, forse lo leggevi fin da bambina. Ti rendi conto che quelle parole dolorose scritte all’inizio forse sono un monito per chi si prenderà cura di quelle pagine, che dovrà sfogliare con delicatezza e amore. Le uscite continuano, gli abbracci diventano naturali, e vai avanti con naturalezza a leggere quelle pagine. Ti raccontano di ogni esperienza, ogni risata, ogni viaggio: ogni parola costruisce la persona che hai davanti, e che, chissà perché, ha deciso di aprirsi proprio con te, di farti leggere le sue pagine. E allora, l’unica cosa naturale che ti viene da fare è accarezzare piano quei fogli, e lentamente aprire il tuo libro e far leggere la tua storia. Ci sono momenti felici, momenti tristi, esperienze che ti hanno segnata. Però hai visto come quella persona è riuscita ad aprirsi con te e credi perciò che la cosa giusta da fare sia quella di lasciarsi leggere, avendo in questo modo la possibilità di poter scrivere delle pagine, insieme.

http://baglioreresiduo.blogspot.it/2010/08/il-vento-scrive-su-la-docile-sabbia-il.html

Parole del giorno: Corro, rido, e mi sento viva.

Sapevo che era tutto irreale, che nulla era vero. Però mi piaceva crogiolarmi fra le braccia di quel sogno. Sapevo che sarebbe durato poco. Ma volevo comunque rimanere stretta a questa finta realtà che stavo respirando. Gli occhi chiusi, e la mente vedeva tutto.

La spiaggia era quasi deserta. C’era solo un labrador che correva e il suo padrone poco distante da lui. Un anziano passeggiava lentamente tenendo le mani dietro la schiena. Sembrava pensasse ai tempi passati, magari a sua moglie, a quant’era bella la vita insieme a lei, alla loro complicità che nessun altro poteva comprendere fino in fondo come solo loro due facevano.

Io ero lì, osservavo il vecchio, e come le zampe del cane formassero delle impronte che subito il mare ripuliva con l’acqua. Le onde erano alte ed agitate. Era un tipico mare invernale un po’ turbato. Il cielo era punteggiato qui e lì da nuvole, che col tramonto cambiavano colori dopo pochi secondi. Pareva di essere all’interno di un quadro, o di una tavolozza di colori di un pittore che sta decidendo quali colori utilizzare per la sua tavola ancora bianca.

Il vento buttava nel caos i miei capelli, che inutilmente cercavano di seguire il suo corso. L’aria fredda mi arrivava sul viso, ma era un’aria fredda piacevole. Era come una calda carezza in un giorno in cui tutto è così buio. Aprii le mie braccia verso il cielo, e cominciai a girare su me stessa, chiusi gli occhi, e iniziai a godermi il vento, il rumore delle onde che andavano a morire sulla spiaggia. Poi iniziai a correre lungo il bagnasciuga, con tutta la forza che avevo nelle gambe. Correvo, ridevo. Ero felice. Così come non lo ero da tanto tempo. Mi ero dimenticata come fosse sentirsi così. Mi sentivo viva. Ogni muscolo, ogni mio centimetro di pelle era finalmente vivo.

Il sogno svanì, e io dovetti riaprire gli occhi. Ma ridevo ancora. Ero di nuovo viva.

Parole del giorno: La Coscienza e l’Altra.

Sto imparando a fare a meno di quella vocina che non fa altro che seminare dubbi nella mia mente e rendermi malinconica. Non si tratta della voce della Coscienza: Lei è gradevole, amica. E’ vero, alle volte può essere un po’ autoritaria, ma è sempre a fin di bene. Invece, l‘Altra è così negativa, ha paura delle cose nuove e non si fida delle persone. Crede di proteggermi dai pericoli della vita facendo sì che io non mi esponga troppo. E’ come stare sul ciglio di un burrone. Sono vicina, ma non abbastanza per vedere cosa ci sia là sotto. L’Altra quindi mi prende e mi trascina indietro dicendomi “Non andare, è pericoloso laggiù!”. Ma io non riesco a vedere che cosa ci sia. Invece, la Coscienza mi dice “Vai, affacciati con prudenza, stai attenta, e rifletti su ciò che fai. Gioca, danza, divertiti. Sfrutta l’occasione che hai per imparare. Buon divertimento!”. Lei ti sprona ad affrontare con intelligenza le difficoltà, mentre l’Altra vuole bendare i tuoi occhi, proteggerti accecandoti con parole pregne di dubbio e paura.

Ascoltate la voce della Coscienza, non l’Altra. Cercate di capire qual è delle due a parlarvi. Una sola di loro sarà quella che vi aiuterà ad imparare a crescere.

Parola del giorno: Fermo-immagine.

Dopo l’aver trascorso delle settimane in cui non avevo un attimo nemmeno per respirare, sono riuscita a ritagliarmi un piccolo momento tutto per me. E così, tra un impegno e l’altro, sono sgattaiolata via dalla mia agenda ed ho iniziato a camminare per le vie di questa magnifica città.

I palazzi erano rossastri e la luce del sole, teneramente autunnale, rendeva magica l’atmosfera. L’aria era fresca, i colori splendenti e le strade gremite di gente che andava di qua e di là. Il mio passo era svelto, la musica mi teneva compagnia e i capelli ballavano col venticello. Il mercato riempiva la piazza, il profumo dei fiori mi abbracciava. Le antiche mura mi sorridevano e io facevo loro l’occhiolino.

Pochi minuti dopo raggiunsi uno di quelli che io chiamo “i miei luoghi”, ovvero, posti che ho trovato per caso passeggiando e che mi rendono estremamente serena per la loro bellezza ed atmosfera. E’ un bar, un piccolo bar, arredato con mobili antichi, e serve the, pasticcini, caffè, brioches, cioccolata calda. Insomma, l’ideale per una coccola pomeridiana.

Sono entrata, ho ordinato una brioche alla marmellata e un cappuccino e ho cominciato a leggere il libro che sta occupando il posto sul comodino. La cameriera mi porta la mia ordinazione, do un morso alla brioches, lo zucchero fa pof nel cappuccino, e con il cucchiaino disegno tra la sua schiuma. D’un tratto noto che all’interno del locale comincia ad esserci una via vai di gente: persone che entrano, ordinano, consumano, pagano e se ne vanno. Qualcuno resta, qualcuno che se ne va. Mi fermo a guardare la scena e ad un certo punto vedo che tutto ciò che ho intorno a me si ferma e io sono l’unica a respirare. Tutti sono bloccati in un fermo-immagine, e io guardo, osservo, quelle pedine immobili.

Parole del giorno: Un viaggio di un attimo.

Erano circa le 19:30. L’asfalto era ancora bagnato dalla pioggia che da poco aveva finito di cadere dal cielo. Era già buio, una delle prime serate d’autunno. Una di quelle sere autunnali dove ormai l’ombrello è un accessorio immancabile ed il maglioncino copre le braccia che, piano piano, stanno abbandonando l’abbronzatura per tornare al loro solito colore. Camminavo lentamente sul marciapiede cosparso da foglie cadute dagli alberi che ogni metro e mezzo andavano a decorarlo. Alberi giovani, alberi veri, ma, allo stesso tempo artificiali. Alberi che erano lì per una ragione ben precisa, non perché portati come semi dal vento. Anche il marciapiede era bagnato di pioggia e a tratti era scivoloso. Le foglie marroni che gli alberi avevano perso formavano una corona intorno alla base del tronco ed erano tutte così belle, lucide e morbide. Brillavano a tratti con la luce dei lampioni. Per strada non c’era nessuno, vidi qualche passante, ma credo che tutti fossero già nella propria casa in attesa della cena. Io continuavo a camminare per raggiungere la stazione dei treni: dovevo solo percorrere il lungo viale, e poi sarei arrivata.

Camminavo ed osservavo gli alberi decorativi sul marciapiede farmi compagnia. Quasi sorridevano al mio passaggio. Un’aria fredda mi passava fra il maglioncino e la maglietta ed i lampioni donavano alla scena che vedevo un’atmosfera parigina. Qualche auto passava sulla strada che stavo costeggiando, mentre io continuavo a camminare. Il rumore dei miei stivali era il suono che mi sembrava risuonare di più. Toc toc, toc toc, toc toc. Ad un certo punto il marciapiede si interrompeva per fare spazio ad una stradina laterale che andava a collegarsi col Corso che stavo percorrendo, per riprendere pochi metri dopo. Attraversai la stradina, e mi ritrovai a quell’angolo, dove un albero noce si ergeva dentro ad un giardino recintato da un’imponente cancellata in ferro nero, in cui le siepi accostate ad essa nascondevano un misterioso giardino. Accanto al muretto che sosteneva la cancellata c’era una fontanella dipinta da una vernice verde scuro che in alcuni punti si stava scrostando. Continuava a buttare fuori acqua. Tri tri tri tri tro tro tri tri tri. L’acqua saltava giù dal rubinetto per raggiungere la vaschetta. Molta usciva da essa, e una piccola pozzanghera circondava la fontanella. Proseguii il mio percorso, toc toc, toc toc, toc toc. Una ciocca di capelli mi andò sul viso, attirata dai miei occhi e dalle mie labbra. Con un gesto rapido e preciso la presi fra le dita e la portai dietro l’orecchio. Fu in quel momento che mi fermai di colpo. C’era qualcosa nell’aria che mi stava sfuggendo. Lentamente mi voltai verso sinistra, guardando dall’altra parte della strada. Esattamente di fronte a me, c’era un bellissimo albergo, di tre piani, stile vittoriano. Un basso cancello ne delimitava la proprietà, di lì si apriva un corridoio in piastrelle bianche, dove poi c’erano cinque o sei scalini che andavano a finire nella porta di ingresso, i quali erano circondati da entrambi lati da splendide aiuole curate meravigliosamente. Sulla destra c’era un grande cartello luminoso che indicava il nome dell’albergo, scritto in un carattere antico “Hotel Ristorante Belvedere“. Nel giardino due lampioni in stile liberty emanavano una luce fioca, antica, donando una sfumatura dorata all’edificio color crema. Guardavo incantata quel luogo, che mi aveva trasportata in un attimo in un altro luogo, in un’altra epoca. Mi sembrava di essere in un silenzioso quartiere di Parigi alla fine del 1800. In quel momento non passava nessuno, non c’era alcun rumore. Tutto era fermo, silenzioso, immobile. Il battito del mio cuore era l’unica cosa che il mio orecchio percepiva, e niente, oltre a me, sembrava aver vita. Dopo qualche minuto cominciai a sentire una canzone, una canzone bellissima http://youtu.be/Q3Kvu6Kgp88, ma non capivo se provenisse dalla mia testa o da una delle finestre aperte dell’albergo. Ero bloccata, non riuscivo a staccarmi da quell’immagine che avevo davanti a me. L’asfalto bagnato, l’albergo, i lampioni, la musica…tutte queste cose mi avevano trasportata in un secondo da tutt’altra parte, facendomi vivere un attimo in un’epoca che mai avrei potuto vivere. Respiravo quell’aria parigina e mi accorgevo di quanto era meraviglioso tutto ciò che avevo davanti.

Bip bip, bip bip! 

Tutte le cose belle, ahimè, finiscono, e questo mio veloce viaggio finì con l’arrivo di un sms sul mio cellulare, il quale mi catapultò improvvisamente nella realtà.  Ed in un secondo ero tornata nella mia solita, quotidiana epoca. Le macchine sfrecciavano in fretta per la strada, la gente si era di colpo materializzata e camminava lungo il marciapiede, andando di corsa verso qualche importante appuntamento serale. Ma nonostante il ritorno alla fretta, lui era ancora lì: l’albergo era di fronte a me, uguale a com’era nel mio breve viaggio parigino. Lo osservai un’ultima volta, gli sorrisi, e mi incamminai verso la stazione dei treni.